imagealt

Incontro con Mario Boccia, fotografo di pace

Reporter di guerra, ma fotografo di pace: Mario Boccia, ha animato il secondo incontro on line del progetto “Professione Reporter: la metamorfosi del giornalismo nel terzo millennio” organizzato grazie al patrocinio della Biblioteca Civica “Tommaso De Ocheda” di Tortona e dedicato alla formazione degli studenti del l’I.I.S. Marconi e del Liceo Peano.

“SOLO LA GUERRA NON SUONA ENTRANDO IN CASA DELLA GENTE, ENTRA COME SE NE AVESSE IL DIRITTO”

Izet Sarajlić, Qualcuno ha suonato

“NON C’È OFFESA PIÙ GRANDE CHE VENIR CACCIATI DALLA PROPRIA CASA”

Mario Boccia racconta la storia delle sue fotografie, e le sue foto raccontano la guerra della ex-Jugoslavia, un’agonia durata 3 anni, 8 mesi, 1 settimana e 6 giorni:

…..Io parto col dirvi che non vi farò vedere il sangue, perché lo immaginerete molto facilmente. Vi racconterò solo un po’ di storia di una delle più grandi tragedie che hanno colpito l’umanità, e sono, ovviamente, ad opera dell’umanità stessa.

Era il giugno del 1991; qua in Italia, la guerra sembrava ancora un gioco: vidi due soldati al confine orientale con una tenda mimetica e le foglie finte… peccato si trovassero in una distesa di cemento. Nello stesso momento, in Slovenia, i soldati attaccavo i caricatori per i fucili con lo scotch, così che si potessero cambiare più facilmente. Tutto accadde molto in fretta: la confusione e la paura dilagavano, e moltissimi disertarono alla prima occasione.

Iniziò subito l’ironia dei giovani, che in periodi simili è una delle poche cose che può far sorridere: nell’agosto del 1991 arrivò una cartolina dall’Università di Belgrado in cui venivano rappresentati un soldato croato e uno serbo mentre trivellavano un ponte su cui si trovavano entrambi. Peccato però che alcuni di soldati, incentivati e assecondati dai loro governi, fossero fieri di ciò che stavano facendo: l’ho visto mentre fotografo i cecchini accanto alle armi, con l’orgoglio dipinto sui loro volti. Purtroppo, a far questo mestiere si stringono mani sporche di sangue…. In quest’occasione ricordo una frase di Publio Terenzio Afro a me cara: “homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“sono un uomo, e nulla di umano mi è estraneo”). Infatti, anche chi in guerra ha ragione può commettere atrocità, e chi ha torto può essere convinto di aver ragione, quindi agire nella sicurezza di star facendo il bene per il proprio Paese. Non dimentichiamoci che in guerra ci sono le persone che difendono casa loro e le persone che attaccano casa altrui, ma entrambe le parti sono umane, quindi guidate da emozioni, sentimenti, idee, convinzioni, pensieri. A mio parere, ciò si riconosce nella foto di un bambino ritrovata nella tasca di un soldato morto: che fosse una vittima o un carnefice di questa guerra non ci è dato saperlo, perché è solo una questione di prospettiva. Ciò che conta è che aveva un figlio, e ora il figlio non ha un più padre. Come lui, troppi altri, indipendentemente dallo schieramento. D’altra parte, anche il più grande pacifista imbraccerebbe il fucile se qualcuno stesse attaccando la sua famiglia.  Minaccia la famiglia e la casa di un uomo, e saprai di che cosa è fatto quell’uomo: probabilmente, rabbia e paura…….”

Le parole di Boccia commentano le foto che si susseguono sullo schermo.  Siamo tutti col fiato sospeso.  Troppo autentica la commozione che incrina la voce del reporter quando inquadra Moreno, morto a Sarajevo, Alessandro, Marco, Dario, uccisi a Mostar da un’unica granata, o Miran, che con Ilaria Alpi morirà trucidato in Somalia.  Amici e fratelli nello spirito, colleghi e portatori di verità.   Le foto di Boccia inchiodano lo spettatore alle sue responsabilità umane senza voyeurismo: niente cadaveri, niente feriti, ma gli sguardi….sguardi che attraversano il tempo. Lo sguardo angosciato di una ragazza che fugge dagli scoppi, quello timoroso e incosciente di due scolari che spiano il momento per tentare di attraversare indenni la strada, quello attonito e rassegnato di una contadina che vede uccise le sue bestie, quello trionfante dei giovani soldati, che si credono eroi, che dimenticano di aver parlato, scherzato, vissuto fianco a fianco con chi ora è il nemico, quello della bimba che sorride con le sue buffe treccine e che, forse, anche lei, crescerà con la mente ferita e sconvolta, quello fermo, feroce, orrendamente lucido del cecchino, che si mette in posa con una croce al collo, con gli amici e con la sua arma, perché lui si, lui sa con certezza di uccidere “nel giusto”.

  A conflitto ormai aperto, gli studenti dell’Università di Belgrado inviarono altre cartoline, che intervallano le foto del reporter, sono capolavori di amara ironia sulla follia umana: soldati croati, serbi e musulmani, uno accanto all’altro, come se si stessero abbracciando, ma che, in realtà, si strozzano a vicenda, la rappresentazione perfetta di una guerra fratricida; o uno spazio diviso da muri, a creare dei compartimenti separati: in ogni compartimento i muri sono crivellati di buchi dei proiettili e il sangue è sparso ovunque. Tutti divisi, tutti distrutti.“

Poi Mario mostra  la foto di un soldato croato. L’uomo tiene in mano un fucile Franchi SPAS 12: un’arma italiana, in un conflitto nazionalista in cui l’Italia non c’entrava nulla. Nessuno ne parla, ma anche noi ci siamo sporcati il nome durante questa guerra e, soprattutto, abbiamo sporcato di sangue le strade di quella terra straziata, come gli altri.  Nessuno ne parla, ma la NATO ha portato morte con i bombardamenti attuati nella mini-Jugoslavia. Nessuno ne parla, ma parlano le immagini, che in rigoroso bianco e nero rappresentano questa grande ipocrisia: c’è la foto dei rosari distribuiti ai soldati, c’è quella dei vescovi ortodossi sussiegosamente seduti accanto ai criminali di guerra, qualcosa che ricorda sinistramente la distribuzione delle indulgenze durante il periodo dell’Inquisizione. Gente che si puliva la coscienza col nome della religione, come se davvero fosse una guerra di religione: “Ragazzi – dice Mario - le guerre di religione non esistono. Forse i soldati sono religiosi e molto, troppo, convinti, ma le guerre scoppiano per ragioni politiche e di potere: nessun capo di Stato è un estremista religioso, ma sono tutti sono amanti del denaro”

La sequenza ci lascia con un ultimo sorriso amaro: la foto di un pacchetto di sigarette con scritto “il fumo uccide” in serbo, croato e cirillico. Tre etnie, una cultura comune e un’origine comune, ma tre scritte separate, nonostante si leggessero tutte allo stesso modo. Da quando quel pacchetto di sigarette divenne famoso, i ragazzi iniziarono a dirsi “Ciao. Ciao. Ciao. Come stai? Come stai? Come stai?”.

E a chi chiedeva: “Ma sei scemo?”, rispondevano: “No, sono in guerra”.

Grazie Mario. Portatore di immagini, di verità. E di pace.

 

“L’IDENTITÀ DELLA BOSNIA NECESSARIAMENTE CONTIENE IN SÉ LA MOLTEPLICITÀ. L’IDENTITÀ COMUNE NON DEVE ASSORBIRE LE DIFFERENZE E LE DIFFERENZE NON DEVONO DISTRUGGERE L’IDENTITÀ COMUNE. RICONOSCERE L’ALTRO NON SIGNIFICA ASSIMILARLO O FARLO UGUALE A NOI, MA PERMETTERGLI DI ESSERE DIVERSO NELLA FORMA SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA.”

Padre Stienan Duvnjak

 Le domande dei ragazzi del Liceo Peano e dell’I.I.S. Marconi:

 Ci racconta la storia del titolo del suo libro, La fioraia di Sarajevo?

“Era il marzo del 1992. La guerra ancora non era scoppiata e io stavo facendo foto a un mercato. Una donna mi notò e mi sorrise, quindi le chiesi come stesse e iniziai a parlare con lei. Siccome non riuscivo a capire di che schieramento facesse parte, provai a domandarle il suo nome: “Come ti chiami?”.

“Fioraia”.

Mi disse semplicemente “fioraia”, perché lei non era parte di nessuno schieramento: lei non era in guerra, lei era in pace. Questa donna non credeva nel conflitto, credeva nell’individuo: nel momento in cui stava scoppiando una guerra di etnie, lei non si concentrò sulle etnie, ma sulle persone, perché una persona è molto più di qualsiasi etnia.

Mesi dopo, a guerra scoppiata, la incontrai di nuovo, e, nonostante i fiori freschi non potesse più venderli, era ancora “fioraia”: vendeva fiori di carta. Durante un conflitto, sorridere a un fotografo di guerra (di pace) e vendere fiori è un atto di resistenza, di amore, di bellezza, di coraggio: questa donna mi diede una lezione di vita, mi trasmise una forza unica. Ho saputo poi che l’hanno uccisa.”

  1. Come si gestiscono le emozioni in guerra, facendo il suo lavoro? Come si può mantenere l’oggettività di fronte a simili tragedie?

 “Io sento parlare di noi cronisti come “storici del presente”, ma non mi ritrovo in questa definizione, troppo ambiziosa: io non possiedo la verità, ma solo la mia esperienza. Io potrei essere influenzato, perché il mio lavoro è vivere la storia del dettaglio. Il problema è che, se ci si avvicina troppo al dettaglio, si perde il quadro generale, e io, questo, non posso permettermelo. Per evitarlo, devo girare molto, devo muovermi di continuo e non posso mai stare fermo. Inoltre, devo fare il serbo a Sarajevo e il bosniaco a Belgrado: è l’unico modo per mantenere una certa distanza intellettuale e rimanere oggettivo.

Nonostante ciò, è ovvio che io abbia sentito e preso parte alle emozioni di moltissimi civili, ma di questo sono grato e non lo considero un ostacolo al mio lavoro, anzi: l’oggettività viene anche dall’apertura mentale e dall’esperienza. Ad esempio, i bambini che sorridevano ignari davanti agli edifici bombardati, che andavano sullo slittino accanto alle tombe coperte di neve dei soldati, o che prendevano diplomi a scuola, dicendomi che “l’informatica è il linguaggio del futuro”, mi hanno scaldato il cuore e dato un grande slancio: loro avevano voglia di vivere, loro avevano voglia di vedere il futuro. Per non parlare delle donne del coro della Chiesa che ho fotografato, dei nonnini che trasportavano taniche d’acqua, delle madri che giocavano coi figli… Loro sono la storia.”

  1. Ha avuto modo di vedere lo strascico psicologico dei civili? Qualcuna delle persone che ha incontrato svolgendo la sua professione si è mai rivolta a lei, a guerra finita?

“Ovviamente lo strascico c’è e non è da sottovalutare: molti, a causa della pesantezza del trauma vissuto, entrano in depressione, non trovano più la tranquillità e si suicidano. Ho conosciuto una bambina che andavo spesso a trovare, e, purtroppo, ho assistito esattamente al percorso appena descritto: le sue due sorelle si sono costruite una vita, ma lei non ce l’ha fatta. L’ho fotografata molte volte durante la guerra, ed era sempre con la mamma, anche quando lei venne a mancare: prese in mano la cornice con la sua foto, e io la ritrassi così.

Un altro aneddoto è su una mia amica che, molto dopo al fine della guerra, ebbe uno shock. Era in una chiesa e, dal nulla, si è ricordata dei soldati che uccisero suo padre davanti ai suoi occhi di bambina innocente. Quegli uomini avevano il crocifisso al collo, e io non penso vedrò mai un crocifisso più sporco di quello.

Purtroppo certe cose ti rimangono in mente e non escono più, e questo vale per soldati, civili e reporter: piango sempre quando mostro le foto del mio amico volontario ucciso in guerra… Non lo dimenticherò mai, esattamente come non dimenticherò la bambina e la sua mamma. Purtroppo o per fortuna, non lo so: so solo che le emozioni sono le protagoniste del pre, del durante e del post guerra. Sono tutte emozioni tragiche, e io mi sento in dovere di raccontarle e di seguirle sempre. Il mio lavoro va oltre la guerra. “

 

Lucrezia Luciana TETI

I.I.S. Marconi  – 2^AR Amministrazione Finanza e Marketing